PJ Harvey “Let England Shake” – 2011 – Universal/Island
Pj è sempre Pj, come si fa a non volerle bene? Anche se l’amore incondizionato, ad ogni uscita discografica, è messo a dura prova da qualcosa di sempre più ricercato e di intimistico (vedi dischi come “White Chalk”). Da “To bring you my love” del 1995, album che, come suoni già si distaccava dai suoi primi due, e che giustamente le valse la fama planetaria, la nostra Polly Jean ha fatto di tutto, passo dopo passo, per cambiare il suo personaggio e la sua musica.
Fa effetto vederla, vestita di tutto punto, come una casta damina dell’epoca vittoriana (sempre copertina di “White Chalk”), una che cinque anni prima solcava i palchi di tutto il mondo indossando tutine rosa fucsia o minigonne inguinali e stivaloni, da perfetta rockeuse.
Dal punto di vista vocale è innegabile che Pj ,nel corso di questi anni, abbia fatto tutto un lavoro per addestrare la sua voce, in modo da poter osare cose che ad una voce rock normalmente non si chiedono (ad esempio nel brano “Let England Shake” il suo timbro vocale è molto simile a quello di Bjork, o almeno questa è la mia impressione).
Musicalmente parlando, la sua ricerca l’ha portata sempre di più verso altri strumenti rispetto alla canonica chitarra elettrica, tipo il pianoforte o quella specie di cetra con la quale molto spesso si esibisce, che le note del disco descrivono come “Auto Arp”, ovvero una piccola arpa portatile da passeggio.
Il risultato di tutto questo? De gustibus!, Io sicuramente preferisco la “Pj dei chitarroni” (i suoi primi tre dischi fino a “To bring you my love”) pur non disdegnando le atmosfere rarefatte di “Is this desire?” o le ottime ballate ariose di “Stories from the City, stories from the Sea”.
In questo disco si vira però verso il folk rock, inteso anche come canzone di protesta civile, infatti condivido pienamente una recensione (talvolta anche copiare bene è un’arte), letta nel reparto dischi del solito negozio francese di Via Torino (chissà qual è?), il cui succo del discorso era che PJ Harvey le mazzate punk non le dà più con le chitarre, ma con i testi.
Consiglio infatti di dargli un’occhiata nel libretto del cd e troverete liriche che inneggiano al risveglio della coscienza sociale (in “Let England Shake”) o che si chiedono come è finito “Our Glorious country, England” (in “The Glorious Land”, quasi fosse Dylan più che Pj) o riferimenti alla natura matrigna “ Cruel nature has won again” (in “On Battleship hill” c’è più Giacomo Leopardi che Pj) o immagini metaforiche molto evocative (in “Bitter Branches”, le braccia delle mogli dei soldati, che salutano i loro mariti in partenza, sembrano rami di alberi che si aprono al mondo).
Ma la musica? E pur sempre un disco! L’operazione funziona! “Let England Shake”, come dicevo prima, è un disco di rock/folk che è più punk di un disco punk, ( tipo il primo dei Violent Femmes, (quello di “Gone Daddy Gone”, per intenderci) sicuramente anche grazie al contributo di collaboratori/amici del calibro di Flood (un monumento a lui!) o del fido chitarrista John Parish o del “Bad seed” Mick Harvey.
Le curiosità: la fanfara in dissonanza in “The Gloroius land” è perfetta, o un campione tratto da “Bed’s too big without you” dei Police.
I picchi , per me, finora sono rappresentati da: “The glorious land”, “On battleship hill” e “Written on the forehead”.
In conclusione un disco non immediato, ma che a lungo andare, come le acque chete, rompe i ponti.
Voto: 7.
E come sempre è stato un piacere. Ciaooo Mauro.
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