Ascoltare David Byrne che esegue per intero “This must be the place”, all’interno dell’omonimo film di Sorrentino, mi ha fatto venir voglia di andare a rispolverare i dischi dei Talking Heads e di farne un Microsolchi. Ma quale disco scegliere? Subito penso alla trilogia prodotta da Brian Eno (“More songs about buildings and food” , “Remain in light”, “Fear of Music”), capolavori assoluti, o al primo disco “77” quello con “Psyco Killer”, ma preferisco scegliere di pancia e quindi perché non proprio “Speak in tongues”, album del 1983 da cui è tratto proprio il brano “This must be the place”?Piccolo particolare: non ho quell’album. Faccio tappa quindi dal mio negozietto di fiducia di vinili usati (l’idea di comprare il cd in economica non mi sfiora minimamente!) e trovo una copia dell’epoca, ancora incellofanata e nuova di zecca. Acquisto fatto, metto sul piatto il 33 ed inizio ad ascoltare. Alla fine della prima facciata mi rendo conto di una cosa: ecco un altro grande disco dei Talkig Heads.
Nel film di Sorrentino c’è un dialogo liberatorio fra David Byrne, che interpreta se stesso, e Sean Penn alias “Cheyenne” in cui quest’ultimo confessa all’amico Byrne, lui si, di essere un vero artista –genio, perché ha saputo nella sua vita rendere felici le persone grazie alla bellezza ed alle intuizioni geniali della sua musica, mentre Cheyenne si considera solo “una popstar del cazzo”che scriveva pezzi malinconici e mielosi, purtroppo presi alla lettera da due suoi fan che si sono suicidati.
Anche dai solchi di questo disco, infatti, fuoriesce tutto il genio di Byrne e dei suoi compagni di viaggio: quella specie di funky-dance dalle armonie sghembe che fa proprio il suono dei Talking Heads.
Il disco si apre con “Burning down the house”, singolone di successo all’epoca, ma è alla fine del lato A che si trova la perla del disco: “i get wild/wild gravity”.
Un pezzo in levare che come atmosfera mi ricorda “Pull up to the bumper” di Grace Jones e che , a mio parere, sarebbe perfetto anche per lei. Riporto indietro la puntina un paio di volte per riascoltarlo prima di girare il disco sul lato B.
E qui la magia continua, spostandosi ancora più sul funky con “Pull up the roots” che sembra quasi un pezzo alla Prince con tanto di Sheila E alle percussioni.
La chiusura del disco è affidata al pezzo alieno “This must be the place” che rispetto a tutti gli altri brani del disco, che “spaccano”, è sicuramente quello dall’atmosfera più leggera e rassicurante, una specie di “coperta di Linus”, la sigla di chiusura perfetta.
Insomma un disco godibilissimo, di puro divertimento, ma di classe (sono i Talkimg Heads!) e con tutti i suoni della New York di Keith Haring (ricordiamoci che era il 1983), tanto che nell’ascoltarlo mi vengono proprio in mente le animazioni con i personaggi del mitico graffitista Newyorkese.
Giudizio: Se vi piacciono i Talking Heads è un disco da avere.
E come sempre è stato un piacere, Il Vostro Mauro.
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