“Technique”: la mutazione da Joy division a New Order è conclusa.
Talvolta sembra che, malgrado noi, tutto torni. La dedica del Macrileo del 15 giugno (che subito azzecca uno dei miei dischi preferiti, nonostante non ne avessi mai parlato perché cito sempre i Joy Division), un verso del pezzo “Vanishing point” che dice “My life ain’t no Holiday, i’ve been to a point of no return”, questo periodo della mia vita, dopo il quale nulla sarà più come prima. Mi viene da pensare a troppe coincidenze. Ci dev’essere, come in "Eraserhead" di David Lynch, un’entità superiore che tira le leve del destino: chiamiamolo Dio, oppure fato, oppure semplice caso, qualcosa ci dev’essere.
Torniamo con i piedi per terra; con questa premessa, per forza il Microsolchi del rientro doveva essere “Technique” dei New Order.
Come molti fan dei Joy division, ce ne ho messo di tempo per capire questo disco, pur col senno di poi. All’epoca, per me, i New Order erano quel gruppo “da DJ Television” del video con gli schiaffi (“True faith”), ma già alle varie mostre di vinili, io, “regazzì”, appassionato di musica, notavo i signori attempati (che poi avranno avuto la mia età attuale, sic!) che compravano il disco dei New Order con in copertina l’angioletto e già avevo capito che quello non era un gruppo meteora per teenagers, ma una formazione di un certo spessore e con uno zoccolo duro di “fedelissimi alla linea”.
“Technique”, come dicevo nel titolo, rappresenta la loro “missione compiuta”, ovvero l’apogeo dei New Order, la loro mutazione verso la musica elettronica, timidamente iniziata con Movement del 1981 e, stilisticamente parlando, conclusasi con questo disco del 1989.
Ma soprattutto è la testimonianza del miracolo che può accadere quando ad un gruppo di impronta post punk si affida un genere a loro in precedenza sconosciuto, com’era la dance per i Joy division, e gli si dice “fanne ciò che vuoi”. Le alternative sono due: o il disastro totale o il capolavoro (in questo caso “la seconda che hai detto”).
La particolarità di “Technique” è quella di incanalare la melodia dei New Order in due strutture: quella rigidamente tecno (“Fine time”-“Round &Round”- “Mr.Disco”-“Vanishing point”) o quella tipicamente da ballata acustica (“All the way” – “Love Less”- “Guilty partner”- “Run”-“Dream attack”).
Sembra impossibile ascoltare, dopo l’apoteosi di sintetico di “Fine Time”(pezzo d’apertura del disco), il brano seguente che si apre su un giro di chitarra acustica.
Quest’ultima sarà la ricetta vincente che Bernard Sumner userà qualche anno più tardi per gli Electronic (gruppo formato con Neil Tennant dei Pet Shop Boys e con sua maestà Johnny Marr degli Smiths) ovvero il giro di chitarra, che regge tutto, unito all’elettronica.
Altra caratteristica: questo è un disco che non invecchia mai, come il loro singolone “Blue Monday” del 1983, roba che ha attraversato tre decenni e suona più innovativa di certe scopiazzature di oggi (non mi fate aprire il libro…).
Aneddoto: Ho una copia in vinile di “Technique” ,comprata a prezzo popolare alla fiera di Sinigallia, ceduta probabilmente da un critico musicale, perché contiene ancora la storia del gruppo dattiloscritta su carta intestata della casa discografica italiana, la CGD , come facevano all’epoca in tempi di “no computer” (vedi Reperto 1 in esclusiva per il Macrileo).
Conclusione: Questo è uno di quei dischi che può piacere sia ai tamarri che impazziranno per “Fine Time” sia agli intellettualoidi che si vorranno concedere la trasgressione della dance unita alla ricerca musicale. Da avere assolutamente.
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