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lunedì 10 ottobre 2011

Microsolchi n. 23 - Nine Inch Nails – “The downward spiral”


Nine Inch Nails – “The downward spiral” – 1994 Nothing records
N I N = Depeche Mode + Einsturzende Neubauten

Equazione matematica che si avvicina forse di più alla musica dei Nine Inch Nails, ovvero il genio melodico dei Depeche Mode, unito al robusto rumorismo industriale del gruppo berlinese di Blixa Bargeld.
I Nine Inch Nails (NIN) sono la creatura del polistrumentista/produttore Trent Reznor ed il loro apice creativo è sicuramente “The downward spiral”.
Preparatevi ad entrare in un mondo pre-apocalittico: il cielo si offusca e diventa plumbeo, il vento soffia  fortissimo e all’orizzonte si intravede la spirale rotante del tifone che a breve tutto risucchierà.
Questa è l’immagine che associo a questo disco; ascoltare “The downward spiral” (la spirale discendente, già detto tutto nel titolo) è come trovarsi nell’occhio del ciclone ed essere risucchiati e risputati fuori dalla sua forza devastante.
Il suono è veramente quanto di più saturo l’orecchio umano possa udire: “Mr. Self Distruct”, brano che apre il disco, è un continuo rincorrersi fra “pieno e “vuoto”, che tradotto in musica significa momenti di “fortissimo” alternati ad altri di silenzio.
Questa è la dinamica del disco, come  per “March of the pigs” in cui,  quando cessa la furia, c’è uno stacchetto rassicurante di pianoforte che porta a due secondi di silenzio per poi aggredire l’ascoltatore con ancora più intensità.
Altro aspetto importante: l’elettronica. I loop, con millimetrica precisione, reggono la struttura ritmica dentro a cui le chitarre ipertrattate e modificate  e “l’animale” Trent Reznor sfogano la loro furia cieca ( ascoltate “Closer” o “Ruiner”)
Nei  momenti di calma abbiamo o il suono: silenzio totale, che ti spiazza comunque,  o si percepiscono rumori  e voci striscianti di sottofondo  che creano un’atmosfera tesa e notturna, come la  New York crepuscolare e deserta di Jena Plissken (ascolta “the becoming” , “a warm place”, “the downward spiral”).
La voce di Trent, a volte nuda a volte sepolta sotto ad un muro di effetti e filtri, cambia registro in continuazione, toccando gli estremi dello sguaiato di “March of the pigs” o “Heresy”  fino al  timido sussurro di “Hurt”.
Ed è proprio con questa ballata che Trent mostra la sua vulnerabilità, con voce flebile mormora “What have i become my sweetest friend? Everyone i know goes away in the end; you could have it all my empire of dirt, I will let you down, I will make you hurt”.
A proposito di questo pezzo: meravigliosa anche la versione voce e chitarra rifatta da Johnny Cash,  in uno  di quegli album di cover che, la leggenda del country americano, ha concepito col produttore Rick Rubin.
Last but not least,  l’ulteriore produzione del disco affidata ad Alan Moulder, guru della new wave al pari di Flood, e garanzia di un suono filtrato, sporco e d’impatto (penso a dischi come “Doppelganger” dei Curve o  “Loveless” dei My Bloody Valentine).
Morale: un disco e soprattutto un genere non per tutti, per stomaci forti e raffinati allo stesso tempo, talmente ricco di spunti e suoni da non stancare mai e da scoprire anche dopo ripetuti ascolti. Molto curata  la versione cd in  economica e maniacale quella deluxe.
Insomma da avere, fidatevi!

E come sempre è stato un piacere. Il Vostro Mauro.

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